Pubblicato il 03 Marzo 2011

E’ di questi giorni la pubblicazione del parere Assonime sulla riforma del decreto 231, in gestazione al Consiglio dei Ministri da alcuni mesi.

Assonime è l’associazione che riunisce oltre 600 società di capitali, tra quotate e non; il suo “acronimo” infatti deriva da “società anonime”, che un tempo configuravano le società “non di persone”. Assonime nasce del resto nel lontano 1910 ed oggi costituisce uno dei più autorevoli riferimenti in materia di diritto societario, al cui orientamento si rifanno molto spesso anche gli apparti legislativi nello loro diverse sedi.

Non v’è dubbio pertanto che la fonte sia autorevole e che quindi il parere sui contenuti della riforma, peraltro negativo, vada considerato.

La riforma del decreto 231 è una iniziativa che nasce alcuni anni fa, sulla scorta delle considerazioni che nel tempo hanno accompagnato la vita stessa del decreto e la sua progressiva crescente applicazione, che ne ha quindi dimostrato la pertinenza e tuttavia ne ha fatto anche emergere i limiti.

I contenuti della riforma oggi in discussione sono stati elaborati da “Arel”, l’agenzia di ricerca e legislazione costituita di fatto in seno al parlamento e che usufruisce del contributo di studiosi, ricercatori, giuristi.

Un consesso sul quale pure non va posto il dubbio della autorevolezza.

Pur tuttavia, siamo al disaccordo.

Vediamo allora i principali contenuti della riforma, in particolare quelli legati alle esigenze di rinnovamento del decreto più sentite da parte degli operatori, i quali hanno dimostrato negli ultimi anni di apprezzare ed applicare questa normativa, valutandone “in primis” il contributo che ne proviene per la gestione e la “governance” delle imprese.

Un primo punto fondamentale della proposta di revisione è la costituzione di un meccanismo di certificazione dei modelli organizzativi basato sul rilascio, da parte di soggetti indipendenti e competenti, di una sorta di attestato che dimostri la coerenza del modello adottato dall’impresa nei confronti dei requisiti richiesti dal decreto.

L’ipotesi della certificazione dei modelli è stata avanzata anche in altre sedi e con finalità diverse.

Si basa comunque sulla convinzione che la logica dell’autovalutazione di un sistema sia in grado di creare meccanismi virtuosi tali da migliorare nel tempo la validità degli strumenti del sistema stesso. Con questa logica sono oltre 30 anni che i sistemi di gestione promuovono sui mercati la loro progressiva diffusione: dagli schemi di qualità a quelli di sicurezza, protezione ambientale, etica, prodotto e così via.

L’autovalutazione dei modelli, ottenuta attraverso enti che il sistema stesso qualifica e riconosce al suo interno come validi, si basa sulla convinzione, forse “vecchia come il mondo”, cha la maturità è un attributo che nessuno può dare “a terzi” ma ognuno deve poter raggiungere in modo autonomo, per crescita propria e propria esperienza.

Gli enti di valutazione, quelli in questo caso detti di “parte terza”, sono espressione di un sistema che cresce e matura in sé stesso: non ci può essere niente di più valido e che non sia sottoposto al gioco degli interessi.

I modelli organizzativi “231”, come ho già avuto modo di affermare in una precedente pubblicazione, non hanno motivo di essere esenti dalla logica appena richiamata; anzi, rifacendosi a schemi di governo e controllo che sono frutto in origine della autoregolamentazione di settore, ancor più si adattano e richiamano a tale esigenza di “autovalutazione”: non può che essere il sistema stesso che rintraccia al suo interno le misure idonee ad apprezzare il grado di validità delle applicazioni in esso realizzate.

L’esigenza di individuare competenze che, appositamente create “terze” rispetto agli operatori, assistano il processo giudiziario nella elaborazione delle formulazioni di idoneità dei modelli è quindi prioritaria; si tratta di fornire competenze organizzative ad un sistema giudiziario che ne è, per sua natura, sprovvisto. In buona sostanza il rischio è altrimenti quello di misurare “con il metro” ciò che va misurato “con un termometro”.

Un altro aspetto fondamentale della proposta di riforma, peraltro strettamente connesso a quello della certificazione dei modelli organizzativi, riguarda la costituzione di prova della idoneità dei modelli medesimi.

L’attuale disposizione del decreto “231” stabilisce che il pubblico ministero non deve provare l’inadeguatezza del modello organizzativo ma è l’impresa stessa che ne deve provare la sua idoneità.

A tale proposito infatti, grava certamente sull'accusa l'onere di dimostrare l'esistenza e l'accertamento dell'illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa dell'ente, ma per converso, è onere dell'ente provare, per contrastare gli elementi di accusa invece a suo carico, le condizioni liberatorie di segno contrario di cui all'art. 6 del decreto 231 ed inerenti appunto l’adeguatezza del modello.

La riforma vuole accedere ad un istituto giuridico che potremmo universalmente ritenere più equo, per il quale appunto “chi accusa, deve anche dimostrare”. In tal senso, il presupposto di validità del modello in quanto certificato pone le imprese in una situazione di maggior equilibrio giudiziario, addossando al pubblico ministero l’impegno di dimostrare il fatto che l’organizzazione e le misure di controllo adottate non siano state in grado di prevenire il reato, coinvolgendo così la responsabilità dell’ente.

Ma quali critiche pervengono allora da Assonime ?

Una prima perplessità mossa dall’associazione, in vero giustificata, è che si possa innescare un procedimento di indagine da parte del pubblico ministero che avrebbe, in luogo delle motivazioni di approfondimento indagatorio, una natura di ingiustificata e penetrante valutazione organizzativa nei confronti dell’impresa mossa con strumenti non propriamente adatti. In secondo luogo, in ordine al modello “auto valutativo” della riforma, vi è da parte di Assonime il timore che si vengano a costituire strutture private, in seno agli enti preposti al rilascio delle certificazioni, in grado di produrre effetti su procedimenti giudiziari di tipo penale.

Si tratta in entrambi i casi di giuste perplessità; ma tuttavia non devono apparire come piene riserve sui contenuti della proposta di riforma. La strada segnata da “Arel” va invece ritenuta quella corretta.

Andranno piuttosto da un lato pensati i giusti rafforzamenti nelle procedure di abilitazione dei futuri enti di certificazione e dall’altro posti precisi limiti in ordine al perimetro di valutazione giudiziaria che gli organi giudiziari inquisitori potranno percorrere.

Ma questo va fatto celermente.

Il dibattito tra “giuristi” non deve portare alla latitanza delle legge.

La riforma è urgente perché i timori di Assonime oggi, alla luce dell’attuale testo del decreto 231, costituiscono una realtà e non una possibilità. 



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